|
FILO SOTTILE CHE SEPARA L'UOMO DALL'ABISSO
ANNA BANFI
Filo sottile che separa l’uomo dall’abisso, il limite è l’unica strada che gli esploratori di Enrique Vila-Matas sanno percorrere: “Tutti loro hanno scelto, come atteggiamento nei confronti del mondo, di affacciarsi sul vuoto”. Nessun passo indietro, a cercare salvezza; nessun salto nel vuoto che coincida con la fine. Professionisti dell’equilibrio, essi percorrono un cammino che non conosce altra meta se non quella di una contemplazione continua del vuoto che li circonda. Guardano l’abisso, gli esploratori, e l’abisso a sua volta trova negli occhi di ognuno uno specchio in cui darsi forma e sostanza. Tremare fa parte del gioco: il filo è sottile e le gambe mai troppo salde. Il vuoto provoca una vertigine, un senso di inquietudine esasperato dall’assenza di reti, ma è una vertigine che ogni esploratore riconosce come compagna di viaggio.
Ognuno ha il suo abisso – incondivisibile e incolmabile. E ogni abisso assume le sembianze che l’esploratore decide di dargli: un “primogenito cialtrone” che sperpera il denaro del padre, per finanziare le proprie sterili ricerche di “instancabile indagatore dell’aldilà”; un padre che con il proprio figlio condivide solo il motto “ormai è tardi per tutto”, frase ripetuta in maniera ossessiva a scandire i tempi di una vita intera fatta di incomprensioni e odio reciproco; un uomo che racconta con una fiaba alla figlia più piccola (per farla addormentare!) la propria disperazione di genitore. Storie che inquietano – perché “se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?”, chiedeva Kafka – ma condite tutte dall’ironia che nei romanzi di Vila-Matas è un segno costante. E allora la soglia tra noi e l’abisso diventa la porta che ci separa dal nostro vicino di casa: al di là di quella porta chiusa cosa troveremo? Abisso o accogliente ospitalità? Se lo chiedono Lydia e Albert, protagonisti del racconto “Materia oscura”, che di fronte a quella porta indugiano: al di là di quella soglia immaginano ci sia Dio, mentre dallo spioncino li osserva un vicino curioso, abituato ad origliare tutti i loro discorsi e che, divertito e spietato, decide di assecondare la loro immaginazione. Ai due che alla fine con coraggio decidono di bussare, risponde che non aprirà, perché continuino così a domandarsi se dietro a quella porta chiusa ci sia “l’abisso più crudele o la danza più gioiosa in un cielo infinito”.
Applicandoci in un esercizio letterario mai fine a se stesso, come in tutti questi anni ci ha insegnato con i suoi splendidi romanzi Enrique Vila-Matas, potremmo tentare di trovare in ognuno di questi racconti un segno di Kafka, nel cui segno, appunto, questi racconti sono scritti. E se a La partenza, Vila-Matas dedica una pagina dei suoi Esploratori dell’abisso, è invece a Ritorno a casa – che ironia! – a cui pensiamo nel leggere le ultime pagine di “Materia oscura”. L’esitazione e l’inquietudine che Lydia e Albert provano di fronte alla porta chiusa assomigliano a quelle che investono il protagonista del racconto kafkiano, una volta arrivato, dopo anni trascorsi lontano, davanti alla porta di casa: “Non oso bussare alla porta della cucina, solo origlio da lontano, solo immobile origlio da lontano, ma in modo da non poter essere sorpreso ad origliare. (…) Ciò che avviene in cucina è il segreto di quelli che siedono lì, che lo difendono da me. Quanto più a lungo si indugia davanti alla porta, tanto più si diventa estranei”. Partenza e ritorno: le due facce del viaggio. Malati di letteratura, i personaggi che Vila-Matas dipinge nei suoi romanzi, sono spesso anche malati di viaggi, come se le due cose non potessero prescindere l’una dall’altra, come se le due cose dovessero procedere in sintonia per alimentarsi a vicenda. Viaggio non solo mentale, perché il distacco fisico si impone come necessità quando tra se stessi e il mondo si vuole porre una distanza incolmabile che sia percepibile da tutto il corpo e non solo dalla mente. Viaggio solitario, perché, come scriveva Vila-Matas ne Il viaggio verticale: “Viaggiare è, prima di tutto, un’atmosfera, uno stare soli, uno stato discretissimo di malinconia e solitudine”. E di distanza ha bisogno anche Luc, esploratore autistico che la comunità guarda con sospetto e respinge, dimostrando la propria incapacità di comprendere il suo “amore per le platee vuote”.
La natura porta Luc ad affermare che “ci sono molte maniere per arrivare, ma la migliore di tutte è non partire”: ad un certo punto, però, decide invece di intraprendere un viaggio che lo porti lontano da tutte le persone che in lui vedono solo un autistico. La sua eccezionalità comincia da lì, da quella decisione di lasciarsi tutto alle spalle: quanto più le decisioni sono difficili e dolorose e quanto più sono controcorrente rispetto al flusso della vita da cui si è soliti farsi trasportare, tanto più l’effetto può essere straordinario. Lo sa Luc e lo sa bene anche Federico Mayol, protagonista de Il viaggio verticale ed esploratore dell’abisso ante litteram che decide di intraprendere un viaggio sinonimo di fuga cieca e disperata, un viaggio che gli occhi ironici del viaggiatore sanno però riempire di incontri ed esperienze che pretendono un racconto. Di fronte alla consapevolezza che l’unica via di fuga è fuggire, anche a costo di doverlo fare per una vita intera, Mayol “tentò di farsi coraggio dicendosi che forse il modo migliore per prepararsi a sopportare la vita era apprendere l’arte di gettarsi alle spalle tutto quanto ci attrae o ci sembra imprescindibile, forse il modo migliore sarebbe concepire la vita come una serie di rotture radicali con tutto, diventare uno specialista in addii”.
Storie di abissi, quasi fotografie che ritraggono l’esploratore mentre compie, come ogni giorno, qualche passo nel vuoto. Finisce il racconto e dopo averne letto l’ultima frase, un’unica certezza: a incontrarlo domani, l’esploratore sarebbe ancora lì, magari un passo più avanti, magari uno indietro.
Un uomo mediocre, una donna qualunque: a rendere eccezionale l’esploratore è lo sguardo che ha sulla vita e la posizione da cui sceglie di osservarla. Si affaccia sul precipizio e se ne compiace: l’ammonimento di Thoreau a cercare un cammino, a non tremare sull’orlo e a “non sprecare troppo tempo ad aspettare” lo lascerebbe indifferente. “Sono uno che aspetta e spera”, risponde Niño a suo padre, “Vivo fuori dalla vita che non esiste”, aggiunge fiero l’esploratore dell’abisso, seduto sull’orlo del precipizio. È lo stesso limite che separa lo scrittore dal lettore: in un gioco di sguardi che crea complicità e cerca condivisione, l’uno si affaccia sull’abisso dell’altro. La grandezza di uno scrittore come Enrique Vila-Matas sta in questo: essere in grado di farci intravedere, al di là delle parole, l’abisso che le contiene, illuminandolo per lampi e restituendolo nei suoi intervalli di vuoti e di pieni. Libri che intrecciano realtà e finzione in un gioco sapiente che fa dimenticare le regole: una volta che il gioco ha inizio, si pensa solo a giocare, non ci si domanda più qual è il limite e si impara presto a seguire il flusso del racconto, dietro al quale in filigrana si intravede l’ironia dello scrittore che, proprio come l’esploratore della porta accanto, ci osserva sornione dallo spioncino, incuriosito da quegli ospiti che si avvicinano alla sua casa.
*Publicado en el número de enero 2012 de L´Indice, rivista literaria de Torino. |