ENRIQUE VILA-MATAS LA VIDA DE LOS OTROS 
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Nápoles. Febrero 2009


EL SUEÑO DE MONTESANO

Joan de Sagarra


BOUVARD Y PÉCUCHET EN NÁPOLES

Mercedes Monmany


GIUSEPPE MONTESANO

Nació en 1959 y enseña filosofía en un instituto de la periferia napolitana. Fue maestro de Saviano y algunos consideran que ciertos aspectos de su obra guardan relación casual con la de Roberto Bolaño. Ha publicado cuatro novelas, A capofitto, Nel corpo di Napoli (Finalista Premio Strega y ganadora del Premio Napoli 1999), Di questa vita menzognera (Premio Viareggio 2003) y Magic People. Y recientemen un libro de ensayo narrativo interesantísimo dedicado a Baudelaire, Il ribelle in guanti rosa.
Ha traducido al italiano a numerosos franceses entre los que se cuentan a Baudelaire, Gautier o Flaubert. Colabora con el periódico Il Mattino y la revista Diario. Su estilo es culto, barroco y visionario. En España publica su obra la Editorial Parténope.

MAI ABBASTANZA WAKEFIELD
Un omaggio minimo a Enrique Vila-Matas

GIUSEPPE MONTESANO


Mi sento espulso dall’universo, come Wakefield. Nessuna sensazione interiore, ma proprio un piccolo, terribilmente inquietante evento reale. Fa freddo, però! Non pensavo affatto che essere come Wakefield potesse dare tanto freddo al corpo che trema. Nel racconto di Hawthorne, così mi pare di ricordare, Wakefield esce di casa per una commissione e non torna più, non torna più nella sua casa e nella sua vita. Ma non posso controllare, perché dove sono non ho il libro e non ci sono biblioteche, e nemmeno librerie. Sono sceso oggi per buttare la spazzatura, un paio di sacchetti molto pesanti che mi davano un senso di disarmonia fisica là in cucina dove pendevano appesi alle sedie, uno azzurro plastica e l’altro bianco trasparente, e sono sceso di colpo, senza pensarci, giù, dove ci sono i bidoni. C’era vento, un vento che deve avermi fatto capovolgere su me stesso, non saprei dire esattamente come, non saprei dire diversamente, insomma un capovolgimento che a un tratto mi ha portato qui dove mi trovo. Mi trovo fuori al cancelletto di ferro e vetro di casa mia vicino ai bidoni dell’immondizia? Potrebbe essere, ma il posto non è riconoscibile perché è quasi sera, o forse perché il vento che continua a soffiare mi impedisce di pensare correttamente. Potrebbe essere che questo luogo sia quello che abitano alcuni personaggi di Beckett, ma francamente non vedo in giro nessuno che somigli a Molloy o a Malone, e nemmeno io somiglio a loro, e al loro posto non mi pare di scorgere altri esseri umani. Non lo immaginavo così, il diventare una specie di Wakefield. Se non ricordo male, Wakefield aveva comunque una casa, almeno una stanza, forse anche una finestra d’angolo che dava su una strada trafficatissima, un posto che lo ricoverasse dalle intemperie, un posto in cui godersi il suo essere un reietto, e in più Wakefield aveva anche, o forse aveva solo quella ed era più che abbastanza, una mente in cui rifugiarsi nella magnifica o abietta ma pur sempre confortevole sensazione di essere sparito. Io no. La mia mente, che tendo a ritenere la stessa cosa di questo luogo che somiglia enormemente al cortiletto di casa mia e non lo è affatto, mi respinge. Se ne frega altamente se io sono Wakefield “il bandito dell’Universo”, come recita una traduzione che ricordo benissimo, e se ne frega anche se io sono Wakefield “il reietto dell’Universo”, come propone, così mi sembra di ricordare, la traduzione dello scrittore Gianni Celati. Mi riscaldo al fuoco di questi ricordi letterari artigianali, fatti con quel che ho sotto mano, se posso dire così. Un piccolo fuoco per il Wakefield che nemmeno sono, forse perché, come dice Leopardi nello Zibaldone, “tutto peggiora”, e io ora sono molto felice di non poter controllare se questa frase è esattamente la sua o è l’eco di ciò che dice il mio amico Luca da tempo, e senza avere mai letto una riga dello Zibaldone. Mio Dio, non poter essere nemmeno Wakefield perché tutto peggiora! E’ un’esclamazione banale, certo, ma è logico che le situazioni eccezionali possano essere illuminate solo dai luoghi comuni, come il mistero secondo Kraus sarà illuminato dalla sua propria luce. Stare qui, in questa specie di luogo molto concreto in cui arrivano a tratti i rumori e le voci della televisione, sentendo freddo e senza sapere se sarà possibile arrivare a qualcosa di simile alla mia casa o che sia l’espulsione definitiva dalla mia casa e l’inizio della spaventosa libertà della sparizione, non è semplice. So che se mi concentrassi potrei avere una illuminazione, ma se mi concentro in questa ridicola posizione in cui sono mi si affollano dentro solo paure di morte. Più esattamente e veritieramente, e la verità nelle mie condizioni è tutto, le paure che mi mordono al ventre sono di perdita, di smarrimento, di caduta, di povertà, di ossessione, di prigione, di disgregamento, di ombra e di polvere, ma ombra e polvere in vita, in vita, e non benignamente in morte. Se riuscissi ad aprire anche solo una finestra in questa sorta di luogo forse sarebbe diverso come nella poesia famosa di Valéry, ma forse quella di Valéry nel Cimitière Marine è solo retorica, lingua al lavoro, quando scrive, mi pare: “In piedi, mio cadavere vivo, nell’èra successiva!” E sia detto non per sminuire la lucente retorica di Valéry, che in fondo da italiano doveva pur avere una inclinazione erotica per l’oratoria, repressa ma visibile, e sia detto nonostante il fatto che poi io pensi che Valéry per decenni non pensasse o pensasse solo il Valéry già pensato, ma il fatto è che al di là della retorica la finestra in questo luogo c’è, e persino molto ampia. Dà sul crepuscolo, un crepuscolo freddissimo ma dal quale non sono avvolto, il fuori è separato da me da un vetro, un vetro che è quello di una finestra reale, la mia. E in questa mia stanza la sensazione perdurante e spiacevole è che le mie mani siano molto fredde, e che quindi pigino con troppa forza sulla tastiera del computer, la tastiera che si trova qui sulla superficie del linguaggio che è la mia scrivania, su cui sto pattinando come colui che non sono, e dove tutto è vero ma niente può essere dimostrato. Il luogo in cui credevo di vivere qualche minuto fa è questo, si direbbe. Esterno e freddo erano forse solo nel linguaggio con il quale ho cercato una fuga dalla sola terribile realtà di non essere sparito come Wakefield, la terribile realtà per sfuggire alla quale anche un luogo mentale di smarrimento e di pena, come il fuori freddo in cui ero sicuro di essermi perso pochi minuti fa, sarebbe forse un dono. E invece qui, nella mia camera disabitata dagli spiriti c’è caldo, non troppo caldo, ma caldo nella realtà miserabile dell’esistenza di un termosifone acceso da ore in questo febbraio gelido, e c’è il canto dell’uccello che fuori sta cantando prima che scenda il buio, ma canta non per mio conforto, anche se forse è lui che mi ha suggerito per un attimo che si possa pattinare su una tastiera come un Wakefield bandito dal significato. Mai abbastanza bandito. Mai abbastanza Wakefield.

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