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UN APOLIDE IN FUGA VERSO CITTÀ INESISTENTI
(Lejos de Veracruz)
DANILO MANERA
Il viaggio, non solo nelle sue accezioni metaforiche o letterarie, ma anche proprio in quanto spostamento fisico e geografico, ricorre in tutta l’opera di Vila-Matas, autore che aspira ad essere straniero ovunque. Il suo viaggio ideale è infinito, sempre rivolto in avanti, e quando non si cristallizza in una rinuncia si propone come “odissea senza ritorno”, un tagliare gli ormeggi o bruciare le navi, una strategia di fuga, una perdita continua, la nostalgia di qualcosa che non c’è.
Nel romanzo Il viaggio verticale (1999; Voland 2006) si esprime appieno questa dimensione del viaggio come struttura dissipativa, come esercizio di sparizione. È infatti la storia di un esilio senza ritorno, “verticale” appunto, perché oltretutto allontana irrimediabilmente dal passato e a ben vedere dalla vita stessa. Il protagonista è il settantenne Federico Mayol, ex uomo d’affari barcellonese che, cacciato di casa dalla moglie, parte verso il Portogallo e Madeira, deciso ad acquisire la “saggezza della lontananza”, guardandosi però più dentro che attorno, perché “quando si viaggia con qualcuno, si tende a guardare con curiosità quel che di strano ci circonda, mentre quando si viaggia da soli, ad essere strani e curiosi siamo noi”. Si lancia così nella vorace e stralunata riscoperta di una formazione culturale negatagli dallo scoppio della guerra civile, fino a immergersi, in una notte di terremoti e inondazioni, nella vertigine d’Atlantide.
È però in Lejos de Veracruz (1995; purtroppo inedito in italiano), il suo romanzo più esuberante e rocambolesco, il più musicale e spericolato, dove s’incrociano a vari livelli, attorno all’asse costituito dagli scenari di viaggio, le dicotomie che formano e definiscono il tessuto compositivo dell’autore, tutte plasmate attorno alla contrapposizione tra casa e spazio esterno, con lo stadio intermedio costituito dall’habitat provvisorio di un hotel. Tali contrapposizioni si sviluppano in una serie così esemplificabile: indolenza / avventura; radicamento / fuga; normalità / vertigine; quotidiano / esotico; vecchiaia / gioventù; buonsenso / follia. E rinviano ovviamente a quella di maggior portata, che mette di fronte da un lato realtà e vita e dall’altro finzione e letteratura.
Vila-Matas è un artista nel rimescolare le carte, sfumare i confini, non prendere rigidamente partito. Traccia una tipologia di scrittori basata sulla predilezione per la stanzialità o il nomadismo, per la calma o la turbolenza, per l’ordine borghese o il disordine avanguardista. Le due coppie più vistose in tal senso sono quelle costituite da Mallarmé vs. Rimbaud e Mann vs. Hemingway. La biforcazione è già presente nei due scrittori inventati del suo romanzo giovanile L’assassina letterata (1977; Voland 2004), Juan Herrera e Vidal Escabia. Vila-Matas confessa in Parigi non finisce mai (2003; Feltrinelli 2006) che, da buon situazionista, s’identificava con Escabia, amante del caos, “giacché non avevo mai avuto una scrivania prima di arrivare a Parigi e, inoltre, avevo passato la vita a rendere omaggio al disordine e a buttar giù quattro sciocchezze in spiaggia o nei bar affollati”. Quel che allora non poteva immaginare è che, con il tempo, avrebbe cominciato a somigliare a Herrera, usando la stessa scrivania a Barcellona per più di un quarto di secolo e curando “fino a estremi patologici e con superstizioni di ogni genere la disposizione dei miei oggetti sul tavolo di lavoro”, trasformato “in uno scrittore sedentario, in un Thomas Mann qualunque”.
Anche tra gli scrittori che viaggiano può emergere, nota Vila-Matas, una natura contraddittoria. Si pensi a Raymond Roussel che, benché si sia spostato per mezzo mondo, non usciva dalla stanza d’albergo o dalla cabina della nave e vedeva solo quel che già conteneva il suo immaginario. E in Il mal di Montano (2002; Feltrinelli 2005) dei viaggi di Henri Michaux ci viene detto che “sono sempre stati più che altro viaggi interiori, quasi da pantofolaio, anche se lo vediamo in alto mare o nella selva ecuadoriana più intricata. Erano piuttosto viaggi per studiare se stesso”. Da lì che il “resoconto di ciò che si è visto lungo il cammino” diventi in lui “un desolante diario intimo dell’angoscia”.
Ma torniamo al magnifico Lontano da Veracruz. Enrique Tenorio, ventisettenne “perplesso, cornuto e monco” che si sente decrepito, nel ritiro volontario in una scialba località balneare di Maiorca, scrive la storia della propria famiglia, con al centro i suoi due fratelli: Antonio e Máximo. Il primo, uomo monotono “con la pipa spenta e la vestaglia di seta”, è autore di fortunati libri di viaggio senza essersi mai mosso da casa. Un giorno conclude che “i viaggi non curano lo spirito” e si suicida gettandosi dalla finestra, poco prima di aprire una libreria specializzata in viaggi. Máximo, timido, fragile e geniale pittore, trova una morte violenta sull’isola caraibica di Beranda, travolto dalla passione per la sensuale cantante di boleri Rosita Boom Boom Romero, fatale ammaliatrice mulatta senza scrupoli.
Enrique, il minore dei tre, vuol fuggire dalla terribile Spagna, evitare professioni artistiche e fare della vita il suo capolavoro, viaggiando e amando. Si reca dunque dapprima in Africa, dove è costretto a uccidere un bandito, poi in India con un’australiana, che lo abbandona quando gli viene amputato un braccio. Si sposa allora con la cugina Carmen, che però muore in Colombia dopo un lungo viaggio di nozze iniziato alle Hawaii e dedicato allo studio dei vulcani. Vola a Beranda per il funerale di Máximo, ma finisce anche lui succube delle grazie di Rosita, che lo imbroglia e tradisce a ripetizione, prosciugandogli il portafoglio. Insomma, viaggia in tre continenti senza ricavarne altro che tragici ritorni, “quattro luoghi comuni” e la dignità calpestata. Per onorare il fratello suicida, parla di lui a un congresso in Messico, poi cerca a Xalapa un amico di Antonio, lo scrittore Sergio Pitol, e con lui visita Veracruz, dove Antonio era nato. Ma vede ovunque l’odiato ganzo di Rosita e, in una sera di demenziale sbornia, ammazza un ubriaco che gli dà corda. Sconfitto su ogni fronte, gli resta solo la letteratura a redimerlo dall’orrenda vita autentica: si accinge allora a scrivere la propria biografia falsificando tutto, omettendo, reinventando, ingannando tutti, spingendo i lettori a “viaggiare come matti” per il mondo, mentre lui viaggia intorno alla sua camera, scendendo nella propria grotta di Montesinos mentale.
Parodia ed elogio insieme dei libri di viaggio, un po’ come lo era il Chisciotte per quelli di cavalleria, Lejos de Veracruz ammicca a luoghi letterari come l’isola di Robinson Crusoe o la Comala di Rulfo. E il suo protagonista, monco come Cervantes e Valle-Inclán, percorrendo nel senso opposto la parabola di Federico Mayol (che da abitudinario pensionato si trasforma in brioso “esploratore dell’abisso”), sceglie una senilità fittizia che ha il vantaggio di “situarsi fuori dall’osceno gioco della cosiddetta realtà”, proprio come la letteratura, che per lui è “l’unica forma di intraprendere un vero viaggio”.
Publicado en L´Indice gennaio 2012 |