Torino, 1947
Torino, 2011
Torino, Vía Po. 2011
Gelateria delle Alpi
Via Po. Torino, 2011
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MOSTRARSI, UN PICCOLO LIBRO DI ANDREA CANOBBIO
ANDREA BAJANI
Jacques Derrida diceva che la letteratura aveva il grande potere di “dire tutto”. Il che rendeva la faccenda dello scrivere molto spinosa: una contraddizione costante tra il totale disvelamento di sé da parte dell’autore, e la sua ricerca del nascondiglio perfetto. Se infatti il potere di “dire tutto”, sosteneva, comporta l’assunzione di un’enorme responsabilità da parte di chi scrive, il farlo dentro un romanzo invece lo deresponsabilizza del tutto: “dico qualunque cosa perché non sono io”. Tutta la vita di Jasques Derrida, sarà un’altalena tra questi due poli, il mostrarsi e il nascondersi, il filosofo appartato prima e poi il filosofo mediatico, militante, torrenziale. Negli ultimi anni lo scrivere tanto di Jasques Derrida, poi, coincideva con lo scrivere dovunque: persino viaggiando in macchina, seduto dalla parte del passeggero, in piena performace speculativa.
S’intitola Mostrarsi (ed. nottetempo), un piccolo libro di Andrea Canobbio. Letterario e confessionale insieme, colto, ironico e scherzoso, è un viaggio dentro quella contraddizione tra il mettersi in mostra e l’occultarsi dentro la scrittura. Canobbio convoca sulla pagina Jack London, Georges Perec e Lewis Carroll, li dispone per le pagine, li usa come pietre dentro un torrente, ci cammina sopra per provare ad arrivare dall’altra, con tutta la paura di uno scrittore che ha paura di cadere, perché sa che tra il mostrare e il nascondere la propria vita nei libri c’è anche il rischio di vederla sparire, di vedersi inghiottire.
Per me mostrarsi e nascondersi, in letteratura sono due istanze incarnate da due scrittori speculari: Jack London e Robert Walser. Da un lato London. Scrive Canobbio: “è stato uno dei primi scrittori a inventarsi come personaggio, a inventare il protagonista della propria biografia: si è fatto fotografare in ogni posa, luogo, abbigliamento, ha diffuso ogni genere di leggende sul proprio passato, ha alimentato l’epica della propria vita con sfide sempre nuove. Ha dato il proprio nome a una marca di sigari e a una marca di merendine, è apparso nella pubblicità di una sartoria newyorkese”. E dall’altra c’è Robert Walser, lo scrittore che forse più di ogni altro nel Novecento, ha teorizzato e vissuto la scomparsa, e a cui lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas ha in qualche modo dedicato Dottor Pasavento. “Una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla”, aveva fatto dire al protagonista del suo capolavoro, Jakob von Gunten. Si era iscritto ad un corso per diventare servitore, nel 1905, e poi si trasferì a lavorare nell’alta Slesia come valletto da camera di un conte, nel castello di Dambrau. Il modo migliore per non essere niente, per essere qualcosa di molto poco importante, una figura vicaria, accessoria, tutt’uno con il contesto. Poi - e verrebbe da dire “coerentemente” - scomparve per ventotto anni nella malattia mentale, prima nella casa di cura Waldau, a Berna (“Alla fine mia sorella Lisa mi ha portato a Waldau alla casa di cura. Fin davanti al portale d’ingresso le ho chiesto: facciamo davvero ciò che conviene ? Il suo silenzio fu molto esplicito”) e poi nella clinica di Herisau, vicino Biel, dove rimase (si nascose) dal 1933 fino a quel Natale del 1956.
Nascondersi o mostrarsi: il nascondiglio di Walser da un lato e il mettersi in mostra, con tracotanza anche, di London. London fa mostra di sé, e e gli sarà compagno, tra i tanti, Hemingway, che si farà fotografare insieme ai leoni, in posa accanto a un pesce pescato, davanti allo specchio mentre tira di boxe mirandosi al volto, cercando di colpirsi narcisisticamente sul naso. E Robert Walser, viceversa, che sta rinchiuso nella clinica di Herisau, e si mostra soltanto per camminare in lungo e in largo per l’Appenzell, insieme all’amico Carl Seelig, e non scrive più se non microgrammi, appunti scritti su pezzi di carta residuali, in una grafia minuscola, illegibile, come se anche la scrittura volesse nascondersi, scomparire, e poi sgualcirsi in tasca per sempre, per poi sperare di sparire definitivamente nel lavaggio. O essere poi riesumati, come poi succederà, e decrittati, ingranditi, studiati. Qualche grafologo ha cercato persino di venire a capo della grafia con cui Walser, prima di essere internato, scriveva la sua corrispondenza e invece questi microgrammi, arrivando alla conclusione che nelle lettere c’era una volontà di mostrarsi, e nei microgrammi il desiderio di nascondersi.
Nel piccolo e acutissimo saggio di Canobbio, Robert Walser se ne resta fuori, nascosto anche lì (“in silenzio e senza /parole, mi ritrovo in disparte”). E invece ne entrano altri, tra le pagine, si affacciano altre stelle della cosmogonia di Canobbio, da Georges Perec a Lewis Carroll, ma anche Henry James e Franz Kafka, fino al più recente di tutti, il francese Emanuel Carrère. Nel 2000 in Italia esce L’avversario, di Carrère, di cui lo stesso Canobbio, tra l’altro, è in qualche modo l’editore. È la storia di un uomo, Jean Claude Romand, che per diciotto anni si è nascosto alla propria famiglia, fingendo di essere quello che non era, uscendo ogni mattina e vagando fino a sera, per poi sedersi a tavola con la famiglia e raccontare un mare di bugie. Fino a quando, il 9 gennaio 1993, uccide moglie, figli e genitori. Poi tenta di suicidarsi. Scrive Carrère: “Pensavo alla stanza in cui vado ogni mattina, dopo aver portato i bambini a scuola. Quella stanza esiste, chiunque può telefonarmi e venirmi a trovare. Quando sono lì scrivo e sistemo copioni che in genere finiscono sugli schermi. Ma so che cosa significhi passare le giornate senza testimoni, sdraiato a guardare il soffitto per ora, con la paura di non esistere più”. Sulla scorta di Carrère, Canobbio conclude, ipotizza che “scrivere è passare una parte della propria vita senza testimoni, mostrando poi le prove (false) dei luoghi (immaginari) visitati”.
Ecco, dove si incontrano il mostrarsi e il nascondersi, che a dispetto di tanti sterili dibattiti sull’autofiction vivono sempre intrecciati. L’inesistenza nell’atto della scrittura e poi però l’evidenza, l’impossibilità di non mostrarsi, dentro il linguaggio, sulla pagina. Walser per tutta la vità tentò di sparire, di non mostrarsi, di scrivere opere che non fossero concluse, come se potessero disperdersi come cenere di parole al vento, diventare “un’entità sperduta e dimenticata nell’immensità della vita”. Eppure poi finì così, trovato riverso in mezzo alla neve il 25 dicembre del 1956, sulle colline dell’Appenzell, in Svizzera. Avrebbe voluto dissolversi, e però proprio all’ultimo non ce la fece, ed è come se in qualche modo avesse cercato uno spazio totalmente bianco per poter essere visibile. Quella distesa di neve, definitiva, e sopra quel corpo sdraiato, quasi comico, sguaiato, come fosse crollato in terra ubriaco, con la suola delle scarpe bene in vista. Come avesse cercato non un foglio piccolo da sgualcire in tasca e una grafia minuscola da decifrare, ma un foglio bianco enorme, una pianura innevata, e un corpo scuro appoggiato sopra, per dire la sua tragedia, e scrivere “Io esisto, nonostante tutto, nonostante me”. |