Brescia. Los que no pagan.
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UN FUTURO DA NOVECENTO
ANDREA BAJANI
Per parlare della letteratura degli anni Duemila mi viene naturale discutere del Novecento, voltarmi indietro a guardare al secolo passato. Lo dico senza alcuna forma di nostalgia, ma piuttosto per consequenzialità, o potrei meglio dire per un'esigenza di complessità. È la stessa ragione per cui preferisco parlare di anni Duemila, e non di anni Zero, come piace ai fanatici del reset. È la tecnologia stessa, d'altra parte, che ci induce alla cancellazione del passato. Salvare le modifiche?, chiede il computer quando facciamo dei cambiamenti in un testo. Se acconsentiamo, se accettiamo, tutto quello che prima c'era non ci sarà mai più. Non verrà archiviato o registrato, ma sostituito. È una sorta di ideologia del presente, oggi piuttosto diffusa: ciò che conta è esclusivamente ciò che c'è davanti ai nostri occhi. Salvare le modifiche?, domanda quasi con un ossimoro il computer. Formulata in un'altra maniera: salvo ciò che salvando non salverò affatto ma perderò?
Io non ho nessuna voglia di salvare le modifiche, né in quanto scrittore, né in quanto cittadino. Non ho intenzione di genuflettermi alla dittatura del presente. E dunque se mi si chiede di esprimermi sulla letteratura della mia generazione, a me viene voglia di rispondere parlando dal secolo passato. Ripartire da lì per poi scollinare e andare avanti. Nel suo ultimo romanzo, Dublinesque (in uscita in Italia a settembre) il grande scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas ha rappresentato il Novecento come una parabola che si è aperta con la monumentale polifonia dell'Ulisse di James Joyce e si è conclusa con l'afasia, monumentale anche quella, di Samuel Beckett. La parola prolifica di Joyce da un lato, e quella apparentemente sterile di Beckett, specchio di un secolo che poco a poco si è avvizzito. Ma si è trattato di una letteratura, dice Vila-Matas, che fino all'ultimo ha continuato ad andare nella direzione della complessità, anche quando poco a poco la parola si è sottratta dalla pagina.
Ecco, io credo che si debba ripartire proprio da lì, riconducendo la letteratura a essere ciò che da sempre è stata: il luogo delle complessità. Parafrasando Vila-Matas si potrebbe dire che come la letteratura del Novecento è partita dall'Odissea, così la letteratura del Duemila dovrebbe partire dall'Ulisse.
La dittatura "del presente", o "della realtà", come è stata anche definita, va in direzione opposta: verso la semplificazione, verso il depotenziamento della letteratura. E noi in quanto lettori, e in quanto cittadini, non abbiamo bisogno di una letteratura indebolita. Abbiamo bisogno di potenza, per citare uno degli argomenti di Franco Cordelli sul Corriere di qualche settimana fa. La dittatura del presente, inoltre, impone l'annullamento dello stile. E io credo, per concludere, che la questione dello stile (o la perdita dello stile, come ha sostenuto Gabriele Pedullà su queste stesse pagine) sia il vero nodo di fondo degli anni Duemila, soprattutto per le generazioni nate con la coazione al salvataggio di tutte le modifiche. In una letteratura che pedini soltanto il presente, il cosiddetto "reale", la parola sarà sempre vicaria di quel "reale", si metterà al suo servizio, gli rimboccherà il letto, ne traccerà il perimetro. E invece noi abbiamo bisogno di una letteratura e di una parola che non siano al servizio di niente e di nessuno.
Abbiamo bisogno di poesia, di visioni. È soltanto lì, nello stile, nella poesia, nella visione, che la parola si svincola dal reale, che esce dall'angolo, e finendo sulla pagina diventa altro, partorisce una realtà che succede soltanto dentro le parole che la dicono.
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